Newsletter n. 116

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Andrew Wyeth (1917-2009), Mattina di Natale (1944), tempera su tavola 60,3×98,5: Minneapolis, Curtis Galleries

Capolavoro di un pittore che amo, Andrew Wyeth (1917-2009), e non cessa di affascinarmi. Per sua ammissione la prima impressione sulla morte di una persona conosciuta e richiamata dalla profondità alla superficie della tela.

Il paesaggio sospeso tra il fiabesco e il realistico. Fiabesco per quella scia di luce che dal corpo supino della morente si protende in modo sinuoso diventando esso stesso via: verso qualcosa, verso qualcuno… Il realismo di un paesaggio invernale trapuntato di neve che modifica la tavola cromatica e la uniforma, ma non la dura secchezza della poca vegetazione che avvolge il corpo della donna.


Qualcosa finisce, si de-finisce, per confondersi con il tutto. Eppure lo sguardo di Hannah è orientato verso un (unico) punto luminoso nel cielo. Sospesa tra il tempo di un crudo accadere e quello di un possibile avvenire. La bianca stanza della sua agonia è la candida coltre di neve scesa a cancellare il paesaggio della vita, ma non una strada: quella che deve prendere o quella che a lei viene incontro.


La sua è una solitudine assoluta, guscio di una speranza suprema: nulla accade, ma avviene. Nulla cade sotto l’ineluttabile necessità, ma l’imprevedibile, eppure atteso, c’è. Forse (qualcuno) le si sta facendo vicino. E viene da lontano, come il cielo impossibile da raggiungere se restiamo
piantati sulla terra, ma che si abbassa e si umilia alla portata di uno sguardo di donna giacente sul suo letto di morte.

È quanto di meglio riesco a pensare per questo Natale (di pandemia): la solitudine del bianco, la tenue luce che fende l’orizzonte, ma non ha (ancora) la forza di conquistare il cielo, il gioco di un dover andare (via) che è anche andare incontro, anzi lasciar venire incontro. Nel profondo silenzio
di una notte che volge al giorno, le strade del nostro fuggire dalla vita sono le strade della “vita vera”, la “luce che illumina ogni uomo”, che viene verso di noi.


Il pudore di una gioia che non può indulgere alla tenerezza (pur se lo desidera con struggimento), ma che la genera come pietà che raccoglie ogni dolore (e quanto!) e, sommessamente, si pronuncia ancora dalla parte della speranza e della vita.

Pier Davide

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