Etica ed evoluzionismo

Prof. Simone MORANDINI Istituto Studi Ecumenici San Bernardino - Venezia

A Introduzione
– Ad oltre un secolo e mezzo da L’Origine delle Specie di Charles Darwin, superata ogni residua diffidenza teologica verso la prospettiva evoluzionista (in Laudato Si’ essa sembra serenamente presupposta, senza neppure bisogno di discuterne), è possibile anche per l’etica teologica ragionare sui contenuti che essa indica, lasciandosi interpellare per un’interazione feconda.
– É questo anche un modo di corrispondere all’indicazione della Veritatis Gaudium, che indicava nella transdisciplinarietà e nel dialogo due punti di riferimento per il rinnovamento della teologia e degli studi ecclesiastici. Anche nei giorni in cui stendevo queste righe così si è espresso papa Francesco a Napoli “Il modo di procedere dialogico è la via per giungere là dove si formano i paradigmi, i modi di sentire, i simboli, le rappresentazioni delle persone e dei popoli. Giungere là ― come “etnografi spirituali” dell’anima dei popoli, diciamo ― per poter dialogare in profondità e, se possibile, contribuire al loro sviluppo con l’annuncio del Vangelo del Regno di Dio, il cui frutto è la maturazione di una fraternità sempre più dilatata ed inclusiva”. Ma tale prospettiva esige anche “l’impegno di rivisitare e reinterrogare continuamente la tradizione”.
– Non c’è dubbio che oggi la prospettiva evoluzionista – talvolta in modo corretto, talaltra con sensibili distorsioni – segna in profondità l’orizzonte concettuale del nostro tempo: misurarci con essa è essenziale per una interrogazione critica competente della tradizione. Neppure è in dubbio che per introdurci in essa non può esserci modo migliore che porsi in ascolto di chi ad essa ha dedicato gli studi di una vita, con risultati di grande significato.

B. Domande al biologo (e non solo)
– Un discussant deve innanzitutto dialogare col relatore principale ed è questa la prima direzione in cui va il mio intervento. Innanzitutto, però, desidero rivolgere un grazie ad Alessandro Minelli, per il suo intervento complesso ed articolato (lontano da un’unilateralità figlia di altre stagioni, che condensava l’oggetto del nostro dire in facili slogan come geni egoisti, scimmie nude o quant’altro…), così come per l’abbondante messe di materiale che ci ha inviato. Desidero poi indirizzare a lui un paio di questioni:
– Programmaticamente la biologia – come ogni scienza della natura – si pone come fondamentalmente avalutativa, anche proprio in relazione al discorso sull’essere umano: essa sottolinea, anzi, come dal punto di vista biologico non siamo la specie perfetta (T.Pievani vede anzi nelle “Imperfezioni” una sfida forte per il pensiero), nè possiamo in alcun modo considerarci come “vertici dell’evoluzione”. La prima domanda, allora, è se tale differenza d’approccio ponga il discorso biologico in qualche modo in competizione con le scienze morali, che al contrario hanno nella realtà della valutazione il loro punto focale o se magari invece essa non apra scenari di reciproca indifferenza. Certo, non dovremmo dimenticare che in realtà c’è anche chi elabora “storie naturali della morale” (intese come evolutive), invitando quindi ad un pur non facile dialogo, sempre esposto al rischio del riduzionismo. La domanda è allora: come ed a quali condizioni i riferimenti offerti dalla biologia possono legittimamente essere usati per un ragionamento competente da parte della riflessione morale? In fondo non è una situazione diversa da quella che si pone in altri ambiti in cui il discernimento morale si esercita a partire dall’elaborazione di altri approcci, non previamente qualificati da un punto di vista etico (anche se qui la cosa appare più complessa per il nostro stesso coinvolgimento in quanto oggetti di descrizione /soggetti riflettenti, ma neppure questo è un caso unico).
– Il secondo interrogativo riguarda la nozione di specie, strumento concettuale oggi problematico dal punto di vista di una biologia che cerca di liberarsi d forme residue di essenzialismo. Tramite l’idea di specie si tracciano nel mondo vivente confini che per alcune forme non sono così netti, ma soprattutto sono variabili nel tempo. “For example, very few properties are needed to distinguish modern man from any other known species. However, if a species of ape were to begin to develop along the same lines as man, acquiring comparable properties, the definition of Homo sapiens would be to have expanded” (Hull 8a, p.326). La domanda è, però, se – pur tenendo presente tale istanza di fondo – tali problemi relativi al concetto di specie interessino effettivamente al presente anche la realtà dell’umano. Non vi sono qui – almeno al presente, su una scala dei tempi ragionevole – confini abbastanza consistenti, che rendono lecito considerare quella realtà che definiamo specie umana come dotata di significato ben definito già al livello biologico? Sia chiaro la domanda non intende riaprire a forme di essenzialismo, nè intende sganciare l’umano dalla dinamica evolutiva, ma solo verificare l’utilizzabilità di un concentto che – come accennerò infra – può esser rilevante per diverse questioni.

C . Interrogativi per l’etica teologica
– Accanto agli interrogativi immediatamente indirizzati a Minelli, aggiungerei alcune note che indicano invece alcune sfide per il discorso etico che mi sembra vengano dal suo intervento.
– La prima istanza che viene alla teologia morale è quella di prendere sul serio l’affascinante storia evolutiva – complessa, articolata e multifattoriale – che ci è stata narrata. essa ci parla di un umano che forse, più che “spirito incarnato” dovremmo abituarci a chiamare “corpo pensante” (e che comunque, qualunque sia la nomenclatura va sempre considerato nella sua unità inscindibile). Mi pare, anzi, che tale esigenza si prolunghi immediatamente nell’istanza di cogliere l’umano anche nelle sue relazioni ecosistemiche: dall’idea di “costruzione della nicchia” proposta nel materiale affidatoci fino alla nozione di Antropocene, mi sembra ci vengano segnalati dati essenziali per disegnare un’antropologia morale “ben fatta” (per parafrasare la “testa ben fatta” di E.Morin).
– Ecco allora che in tale prospettiva la singolarità umana viene pensata “naturalmente” quale caratteristica di un “very special primate” (Kuhlwilm, Boeckx, p.2). Tale specialità si colloca, però, più al livello del linguaggio, della cultura, della socialità che a quello di una specifica origine evolutiva. Si colloca cioè ad un livello che, pur innestato su quello biologico e ad esso collegato, è comunque – almeno per la nostra specie – irriducibile (contro i riduzionismi del “non è altro che…”). Sintonizzarsi su tale prospettiva esige evidentemente di assumere un concetto esteso di cultura, quale sfondo su cui pensare per specificazione anche il concetto ben più delimitato cui la Teologia Morale è abituata.
– Tale prospettiva offre significativi guadagno concettuali; a partire da essa è più facile confrontarsi con la sfida posta da autori come J.Rachels o Peter Singer che vedono nella prospettiva evoluzionista uno sfondamento di ogni forma di antropocentrismo. Esso sarebbe allora nient’altro che espressione di specismo – una posizione tanto immorale quanto il razzismo – mentre una poszione eticamente sostenibile esigerebbe di concentrare l’attenzione sui concreti individui viventi, modulando diritti e obblighi morali solo sulla base delle loro capacità (con le note devastanti conseguenze bioetiche). Forse una meditazione dell’unicità umana nella sua collocazione entro il flusso evolutivo consente di argomentare in modo non aprioristico in quest’ambito (e sappiamo bene che la buona argomentazione cotituisce elemento qualificante del ragionamento morale nelle società complesse). Non si tratterà peraltro di difendere forme di antropocentrismo assoluto (“dispotico”, secondo Laudato Si’), ma di articolare la doverosa attenzione per la singolarità umana con l’elaborazione di una “bioetica animale” o “etica della cura interspecifica”.
– Accanto ai guadagni concettuali si pongono insomma anche sfide, di portata anche più ampia di quella sopraccennata. In tale prospettiva occorre ad esempio tornare a tematizzare in forme nuove un concetto pur così importante come “legge naturale“: come intendere “naturale” quando lo riferiamo a esseri costitutivamente culturali quali noi siamo? come costruire una prospettiva che eviti di identificare – magari in modo subliminale – il naturale col biologico? o non si potrebbe pensare a privilegiare altre espressioni, evitando i possiibli equivoci cui essa appare esposta?

Non è forse più opportuno articolare il discorso morale a partire da quella riflessione che vede nella relazionalità e nella comunicazione elementi costitutivi della storia evolutiva dell’umano? non è forse più fecondo assumere la dimensione culturale come spazio in cui può trovare spazio una considerazione della mutualità e dell’altruismo, quali radici su cui innestare una prospettiva esplicitamente morale? non andremmo forse tra l’altro nella direzione indicata da papa Francesco, nel momento in cui in Evangelii Gaudium invita a collocare la misericordia e la carità al cuore della gerarchia delle verità per il discorso morale?